Se poco senso ha sempre avuto creare delle categorie, nel nostro periodo storico lo ha ancora meno. Per avvicinarsi a Les nuits fauves di Carolina Lopez bisogna spogliarsi di qualsiasi pregiudizio artistico e sociale. Il suo è un lavoro che richiede un’immersione totale in un mondo che per me costituisce una scoperta. La prima volta che ho visto queste fotografie nella casa milanese dell’artista, tra una chiacchiera e una tazza di tè, sono rimasta sbalordita. Mi sono così resa conto che non conoscevo nulla di questa parte del mondo. A colpirmi inizialmente sono stati i colori forti, esasperati, i corpi così abbigliati.
Di cosa si tratta? Reportage? Indagine sociale? Ritratto? Che importa? Ciò che conta è l’esito è quanto rimane negli occhi dopo essersi immersi in quelle foto piene di colore, il più delle volte piatto, potente, eccessivo talvolta volgare.
Dove siamo? Budapest, Praga, Milano, Parigi, Los Angeles. Le immagini non sono accompagnate da didascalie, non è così importante collocarle geograficamente. Ogni foto ha preso il via da un’attrazione più o meno fatale. Carolina partecipa a parecchie feste, la invitano, si fa invitare. Arriva con le sue machine fotografiche, si insinua in quei tessuti umani che le piacciono, dove si sente perfettamente a suo agio. Burlesque, spogliarello, allegria forse simulata, tristezza presunta. Ognuna delle sue immagini emana una dimensione esasperata, grottesca, chiassosa. È come se quelle foto piene di dettagli, di stimoli riuscissero a comunicarci anche il rumore assordante di quei luoghi.
Sarebbe un errore pensarla una semplice osservatrice, Carolina fotografa da pari a pari, da protagonista di quelle feste. In tal senso il suo lavoro è particolare, straniante.

Il suo atteggiamento rimanda più a quello di Nan Goldin che a quello di Martin Parr. Le sue notti sono fauves, selvagge. È uno sguardo dall’interno, profondamente coinvolto. È un’antireporter. Così come lo era quando a Istanbul fotografava le donne dal dietro. Certo in quel caso non apparteneva a quel mondo, ma il suo non era certo un interesse documentario. E quindi Berlino, dove vive per un anno e mezzo e frequenta con passione la vita notturna.
In ogni luogo diversa e per certi versi riconoscibile. Più raffinata a Parigi, greve nei paesi dell’Est Europa, “modaiola” a Milano, dove Carolina si introduce nelle diverse feste del mondo della moda.
Carolina è amante di quei dimensioni che rimandano per certi versi alle trimalcionesche feste raccontate da Petronio nel Satyricon duemila anni fa, a quella decadenza dei costumi, che è stata trasformata in immagini nei film di Federico Fellini, di Pier Paolo Pasolini. È il mondo del troppo, con gli stessi colori esasperati, mutatis mutandis, del lavoro fotografico di Lopez. La sua è la testimonianza di una società senza dolore apparente, parafrasando il filosofo Byung Chul Han. Di un mondo in cui il dolore viene assopito, anestetizzato per fingere che non esista. Un mondo narcisista di persone rifatte, mascherate, che non accettano la morte, dove tuttavia la morte è dominante in una dimensione di erotismo egotico. «Osservo ambiti molto superficiali, dominati dal consumismo, che, però, poi vado a scardinare proprio con il mio modo personale di vedere. Creo visioni frammentate e molto ravvicinate».

Alcune immagini sono in esterno, perlopiù realizzate a Las Vegas, dove le persone, soprattutto le donne camminano quasi nude per strada con i corpi completamente glabri. Nessuno si volta a guardarle, c’è la stessa naturalezza che troviamo nello sguardo di Carolina, che a quei mondi è abituata.
Il suo lavoro risente fortemente della sua formazione. Già in Colombia, il suo paese di
origine, studia pittura, quindi arriva in Italia, a Firenze, dove continua a farlo all’Accademia di Belle Arti. Lavora con e sui colori forti, che la riportano alla sua cultura primigenia, realizza ritratti, paesaggi. Inizia quindi a studiare fotografia alla Santa Reparata International School.

Il mezzo è secondario rispetto al fine, ma è come se Lopez avesse metabolizzato tutte le sue esperienze del passato per giungere a questa serie di lavori così forti e per certi versi coraggiosi, che in talune immagini la vedono anche protagonista.
In ognuna delle sue foto si ritrova la sua cultura latino-americana, la sua personalità spiccata, che la rendono diversa dall’ambiente in cui si trova a operare. In tal senso il suo lavoro è unico, particolare. È il punto di vista a essere differente. Carolina è una osservatrice di immagini, una donna curiosa che si inserisce negli ambienti.
Le protagoniste di quasi tutte le sue foto sono donne, delle quali in molti casi non è rappresentato il volto, oppure lo è in maniera irriconoscibile. Le sue sono evasioni nella notte, evasioni esistenziali.
Abbiamo scritto pocanzi che le sue sono osservazioni dall’interno, ma al contempo è come se ci trovassimo di fronte a delle biopsie sociali, a dei piccoli carotaggi, alla ricerca di dettagli che riescano a rappresentare il tutto. In molte di queste foto riusciamo a cogliere il punctum, citando Roland Barthes, che trafigge la nostra immaginazione, il nostro sguardo, che cattura la nostra attenzione e influenza la nostra lettura: la bretella di un corpetto, il dettaglio di un body, la fantasia di un abito impossibile.
È interessante ascoltare il racconto della sua modalità operativa: «Se vengo a sapere che c’è un evento che mi interessa, cerco di rapportarmi con chi lo organizza chiedendo di essere lasciata libera di scattare. Non mi hanno mai detto di no. In genere in quel mondo sono tutti felici di esibirsi, di farsi riprendere. Al massimo te lo dicono se dà loro fastidio e io non scatto. Molti dei partecipanti sono amici oppure lo diventano con il tempo, altri sono professionisti della notte. Le donne amano essere fotografate da me perché gli piace come guardo il femminile e come lo traduco in immagine, do loro sicurezza, non sono una voyeuse. Alcune si offrono persino al mio obiettivo». Il dialogo, la chiacchiera precede ogni scatto. Carolina non vuole rubare nulla.
È colpita dalle mises, dalle tute, dai guanti, dalle calze, che la riportano a
dimensioni altre, talvolta pittoriche, talvolta al mondo sadomaso di Robert Mapplethorpe, artista amatissimo, ma anche a certa arte antica giapponese, a certo erotismo del mondo fluttuante. Anche qui i corpi fluttuano senza per forza trovare un senso alle loro azioni.

Spesso, come già scritto, il richiamo è alle dimensioni grottesche del Burlesque, una pratica che trova le sue origini nell’Inghilterra dell’800 e che ora ha preso piede nella nostra società fatta di eccessi, di selfie, di narcisismi di sorta. È la voglia di stupire e Lopez ama farsi stupire
A essere fotografate sono perlopiù le donne giovani, ma non mancano quelle consumate dal tempo, il cui trucco è quasi sempre esagerato. I riferimenti sessuali non si contano. Pochissimi gli uomini, alcuni i transgender. È affascinante la naturalezza con la quale l’artista colombiana affronta le situazioni, in lei non c’è mai alcun giudizio di natura morale, anche quando affronta le situazioni più pesanti. Nessuno è l’intento caricaturale al quale quel mondo potrebbe prestarsi.
Vorrei capire di più di questi ambiti che non conosco e che vedo nelle sue immagini. Perché le persone vanno in questi ambienti? Si divertono? Tutto mi pare lontanissimo. È la prima volta che mi trovo a scrivere di immagini di questo tipo. La spiegazione è molto più profonda di quanto non possa sembrare. La gente ci va attratta dalla moda, dai personaggi che organizzano tali feste, forse per raccontarlo in giro, per farsi dei selfie.
Choderlos de Laclos con le sue settecentesche “relazioni pericolose” non è poi così lontano. Solo che qui l’ambiente, almeno apparentemente, è più democratico. Essere in questi luoghi è una prova di esistenza in un mondo al quale molti aspirano, a costo di rendersi ridicoli. Ma che importa?
In una foto è ritratto un culo degno della pubblicità delle slip anni Ottanta. Nessun intervento con Photoshop, è tutto naturale, anche perché il soggetto è una minorenne che di lavoro sta a serate intere su un quadrato a farsi guardare, e fotografare. È una coniglietta. A me vengono le lacrime. Quanta malinconia.
E ancora il locale milanese omosex dove lesbiche e gay sono più belli che mai. Stiamo uscendo dagli stereotipi odiosi di solo pochi anni fa. La sessualità è liquida, anch’essa fluttuante. Allora che bisogno c’è di definire i generi? Proprio come nell’arte.

Il libro Les Nuits Fauves, edito da SelfSelf Books, sarà presentato alla galleria Still mercoledì 23 marzo 2022, alle ore 19.