fino al 2 febbraio 2024
Silvia Alessi

Greta Gandini

Lampi di irrealtà

a cura di Denis Curti

Cartella stampa e immagini

Silvia Alessi – The Cut
Silvia Alessi, uno scatto dopo l’altro, sintetizza un meccanismo in divenire animato dalla necessità sentimentale di concedersi alla diversità per accogliere, nella sua totalità creativa, sé stessa. «La Fotografia non rimemora il passato. […] L’effetto che essa produce su di me non è quello di restituire ciò che è abolito, ma di attestare che ciò che vedo è effettivamente stato. […] Ogni fotografia è un certificato di presenza». Con queste parole, datate 1980, il saggista francese Roland Barthes, tra le pagine del suo libro intitolato “La camera chiara”, conferisce allo strumento fotografico un potere ben preciso: inquadrare il legame ambiguo tra l’essere umano e le sue azioni. Di riflesso, nel lavoro di Silvia Alessi questa lettura operativa compie un salto concettuale.

The Cut, Silvia Alessi

Le immagini raccolte nel progetto “The Cut” (2020-ongoing) non sono unicamente elementi reportagistici capaci di testimoniare una effettiva presenza terrena, bensì mettono in luce un processo di identificazione estetico, attuato sfruttando la centralità che i capelli hanno sulla nostra personalità. Queste immagini, parafrasando il ragionamento barthesiano, rappresentano dunque un vero e proprio “attestato di Esistenza”. Da qui la scelta di seguire le linee sinuose che questi filamenti di cheratina tracciano in giro per il mondo come un filo di Arianna mitologico; un itinerario geograficamente frammentato, ma pur sempre lucido nella metodologia esecutiva, che consente all’autrice di uscire dalla dimensione autobiografica – Silvia si occupa da più di trent’anni di acconciature – e intessere legami cross- culturali fondati sull’autodeterminazione iconografica. Pertanto, il principio narrativo attraverso il quale i suoi soggetti vengono presentati all’osservatore fa prendere alla linea degli eventi una direzione capace di riscriverne il precario equilibrio percettivo. Silvia ci propone un immaginario allegorico come supporto alla fattualità del momento. Di fatto, mediante costumi, trucco, oggetti fittizi (sempre traghettati da location in location) e credibilissimi interventi strutturali sulla scena, accompagnati da storie tragicamente reali, l’artista offre a queste persone la possibilità di raccontarsi. Non solo, i suoi personaggi, spesso ingabbiati in contesti dispotici, attraverso il linguaggio ibrido di Silvia, collocabile a metà strada tra la staged-photography e il puro documento giornalistico, vengono contaminati con il seme dell’emancipazione espressiva, e possono finalmente manifestare l’unicità della propria cultura, generazione o addirittura religione. Ciascuno di loro viene quindi proiettato in una dimensione altra, in cui le difficoltà della vita spesso cedono il passo a racconti fantastici dove, come lei stessa afferma, “il capello ha potere”.

L’IMMEDESIMA SPECIE – Greta Gandini
La prima volta che mi è capitato di vedere il lavoro di Greta Gandini ne sono rimasto davvero rapito. Le sue figure, così surreali, mi hanno letteralmente conquistato. Ho subito pensato alle diverse esperienze di staged photography, ma queste immagini avevano qualcosa di più e avvicinandomi, con gli occhi e con il cuore, ho capito che si trattava di un vero e proprio autoritratto e non solo di una messa in scena, di una ricostruzione. Poi ho collegato questo progetto a un’altra fotografia che da sempre mi ha affascinato: “The Mask Series”, di Inge Morath. La storia di questo scatto è legata a una produzione che Saul Steinberg realizzò tra il 1959 e il 1963, trasformando dei sacchetti di carta in vere e proprie maschere. Quelle facce stilizzate divennero famose attraverso le fotografie di Inge Morath.

L’immedesima specie, Greta Gandini

“La maschera”, ebbe a scrivere Steinberg, “è una protezione contro la rivelazione”. Ed è così anche per le opere di Greta Gandini. Le sue immagini ci invitano a lanciare lo sguardo oltre la superficie, ad accettare ed esplorare la dualità tra realtà e finzione. Nel labirinto delle identità sfuggenti, la fotografia diventa una lente attraverso cui scrutare le forme più profonde dell’animo umano, per riscoprire il fascino della nostra vulnerabilità. Dal mio punto di vista, ho provato a ricollocare ogni singolo autoritratto di Greta all’interno del mio personalissimo viaggio dell’infanzia. Ricordando di come il ritmo della crescita è scandito da un alternarsi di realtà e illusione e di come la forza dell’immaginazione ci rende liberi di sognare cose impossibili e di attraversare mondi fantastici. È il tempo del gioco come rituale sacro, quando siamo capaci di abbracciare l’ignoto con un sorriso sfrontato. Nel crescere, nel traumatico passaggio alla vita adulta, questa magia si dissolve e si trasforma in qualcosa di diverso: una maschera che scegliamo di indossare consapevolmente. Non lo facciamo per nasconderci, ma per difenderci dal mondo e, forse, per poterlo affrontare. È la maschera che ci permette di tenere acceso il desiderio di sognare senza angosce e di riscoprire la meraviglia nel quotidiano.

L’immedesima specie, Greta Gandini

Osservando i personaggi, solo apparentemente mostruosi, fotografati ossessivamente da Diane Arbus, che catturano l’essenza più inquieta dell’umanità, riusciamo a mettere a fuoco la complessità dietro le maschere che indossiamo. Così le maschere diventano una forma di espressione autentica, una metamorfosi delle emozioni rappresentate in forme visibili. Ed è questo il risultato che Greta ha prodotto.

Denis Curti

 

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